25 anni senza Fabrizio De Andrè
L’ 11 gennaio di 25 anni Fabrizio De Andrè se ne andò. Ricordo ancora quella mattinata del 1999 quando, a scuola, in un momento libero lessi la notizia su un giornale online.
Notizia, almeno per me, giunta come un fulmine a ciel sereno, non sapendo che da tempo Fabrizio stava lottando e, purtroppo, soccombendo al male.
E subito mi riportarono alla mente le sue canzoni più famose, a partire da “Il testamento” che, adolescente e alla metà degli anni ’60 o poco più, sentivo ripetutamente in un juke-box di un bar dell’entroterra genovese.
Una canzone che molti miei coetanei non apprezzavano, forse non capivano, qualche ragazza allora arrossiva al sentire “la rendita di una puttana“, ma che per me era la rappresentazione del mondo di Fabrizio, il mondo degli ultimi, degli esclusi.
A volte con le 100 lire sceglievo tre volte questa canzone, oppure una volta il lato B, la “Ballata del Michè“.
Poi altre canzoni, da “La città vecchia“, a “Bocca di rosa“, “Carlo Martello“, “La ballate del Michè” già citata, passando per la famosissima “Canzone di Marinella“.
“Bocca di rosa” fu anche al centro di una invenzione con i miei compagni di classe al Liceo classico Colombo, in quanto la traducemmo in latino, strofa per strofa. Ne ricordo ancora alcune, forse con errori grammaticali: “Via Agri est quendam virgo, labiae rubri coloratae, oculi grandes quam strada, nascuntur flores ubicumque iter facit.” (mi scuso per eventuali errori,ma è passato più di mezzo secolo…)
Qualche anno dopo ebbi l’occasione di incontrare Fabrizio per una strana coincidenza. Come spesso accadeva in quegli anni, i primi anni ’70, i ragazzi spesso si incontravano alla sera per partite di calcio in piazze della città. Con alcuni amici fui invitato nella zona di Carignano dove d’estate si sfidavano diverse squadre provenienti dai vari quartieri del centro
Una ventina di coetanei e qualche giovane con una manciata di anni di più. Uno di quelli era Fabrizio, forse accompagnava qualcuno, in quanto non ricordo che giocasse, e ma lo osservai costantemente con la sigaretta in bocca, pensoso, quasi estraniato e ricordo di aver detto ad un amico che era esattamente come nella foto di questa copertina.
Negli anni successivi, ne seguii la strada verso il successo, ascoltando non più al juke-box ma su dischi o musicassette tutte le storie raccontate da Fabrizio, senza perderne mai alcuna.
Rimasi turbato quando seppi del rapimento in Sardegna, sentendomi un po’ colpevole, in quanto traggo le mie origini, da parte paterna, proprio da quella zona, Tempio Pausania. Una esperienza lunga, dura e difficile per lui e per Dori Ghezzi, ma dalla quale uscì senza odiare i rapitori e quasi giustificando e provando pietà per quei pastori anch’essi parte del mondo degli ultimi. Dopo 117 giorni, il 21 dicembre 1979, furono rilasciati ed ebbe a dire ” Noi ne siamo venuti fuori, mentre loro non potranno farlo mai“.
E’ stato grande, forse il più grande autore della seconda metà del ‘900, e il mio più grande rammarico, da ex-docente, è che di lui ve ne è solo piccola traccia nei testi di letteratura del ‘900 e, cosa ancor più grave, quasi sempre non trattato per “mancanza di tempo”.
Ciao Fabrizio.