Il 24 marzo ricorrono 80 anni dalla strage delle Fosse Ardeatine. 335 persone, da giovani di 17 anni ad anziani di 75, antifascisti comunisti, socialisti ed azionisti, ebrei, persone qualunque in carcere per piccoli reati, o semplicemente sfortunati che erano passati vicino via Rasella dove aveva avuto luogo un attentato contro una colonna di fascisti repubblichini.
Su ordine del generale tedesco Kappler essi furono prelevati dai carceri controllati dai nazisti e dai loro alleati fascisti condotti alle Fosse Ardeatine e crudelmente uccisi con un colpo di pistola alla nuca, ed i cadaveri gettati nelle caverne uno sull’altro.
Una delle peggiori stragi nazifasciste che ebbero luogo in diverse parti dell’Italia, perpetrate dai soldati nazisti e dai loro alleati fascisti repubblichini, durante la risalita a nord delle truppe di occupazione.
In questi ultimi anni è sorto il tentativo da parte di neofascisti di attribuire la responsabilità della rappresaglia ai Partigiani che colpirono un gruppo di soldati altoatesini, ben sapendo che quello fu un atto di guerra contro l’occupante nazista ed i suoi alleati, come per altro in seguito riconosciuto da diverse sentenze giudiziarie.
Nella mia carriera ultra-quarantennale a scuola ho sempre creduto che fosse necessario adeguarsi ad un “Dress Code“. Ovviamente non una imposizione a vestire una specie di uniforme, come nei college anglosassoni, ma solo un limite di decenza e di buon gusto entro il quale ciascuno, docente o studente, possa collocarsi.
Personalmente, specie negli ultimo 15/20 anni di lavoro, ho quasi sempre indossato una giacca, camicia e cravatta, raramente un maglione o una t-shirt nei periodi caldi. Non tanto per una scelta di presunta eleganza, ma anche per comodità in quanto la giacca ha tasche entro le quali mettere oggetti, fazzoletto, chiavi, etc.
Ciò non dimeno ho sempre ritenuto che l’istituzione scolastica dovesse essere considerata non alla stregua di una discoteca, piuttosto che di uno stabilimento balneare, per cui non ho mai apprezzato chi, nei giorni finali dell’anno scolastico, si presentava a scuola se maschio con pantaloncini, bermuda e infradito, se femmina con magliette che ricordavano una brassiere lasciando pancia scoperta.
Nella dozzina di volte in cui ho esercitato la funzione di presidente di commissione per l’esame di Stato, ho raccomandato ai membri interni di chiedere ai candidati di presentarsi alle prove con un abbigliamento consono in quanto in quel momento sia io che il resto della commissione rappresentavamo lo Stato. E devo dire che tale raccomandazione è stata al 99% recepita.
Faccio questa lunga e noiosa premessa in quanto è di questi giorni la notizia che il Collaboratore (o collaboratrice) del Dirigente scolastico del Liceo Classico Socrate di Roma ha raccomandato alle alunne di non indossare la minigonna, in quanto, in assenza dei banchi monoposto non ancora consegnati, le gambe delle alunne avrebbero potuto essere oggetto di sguardi inopportuni da parte dei docenti, si pensa maschi.
Ovvia e condivisibile la simpatica protesta delle alunne che si sono presentate a scuola in minigonna o con pantaloncini, dichiarando la loro libertà di abbigliarsi a loro piacimento.
Sull’uso di minigonne, pantaloni stracciati, pantaloncini, brassiere, vale il discorso in premessa: a mio avviso bisognerebbe predisporre un “Dress Code” che tenga conto della libertà di abbigliamento, però nei limiti di decenza e buon gusto.
Ma la cosa che trovo deprecabile è l’affermazione del Collaboratore/Collaboratrice del DS per cui i docenti maschi potrebbero essere distolti al proprio lavoro cadendo il loro occhio sulle gambe delle studentesse. Affermazione grave per la quale spero che il DS, il Collegio dei docenti intervengano e che chi ha fatto questo invito sia rimosso immediatamente dal suo incarico.
Certo nella mia esperienza scolastica mi è anche capitato di commentare con qualche collega maschio la particolare avvenenza di una collega, magari anche di qualche studentessa degli ultimi anni, ma non mi è mai capitato di vedere o avere notizia di qualche docente che in cattedra si sia permesso di sbirciare o “far cadere l’occhio” sulle gambe più o meno esposte di alunne.
Alle alunne del Socrate vorrei dire che la loro libertà di abbigliamento non deve essere messa in discussione, così come deve essere combattuta con forza la teoria per cui lo stalking o, peggio, di violenze verbali o fisiche ad una donna siano in qualche modo correlate e causate dal suo apparire.
Ma anche che questa libertà non può non tener conto del luogo e delle circostanze e, soprattutto, del buon gusto.
Spesso le foto di cronaca sono osservate per pochi secondi, giusto il tempo di aggiungere qualcosa alla notizia di un fatto accaduto. Ma molte foto se osservate nei particolari hanno il pregio di rendere comprensibile nel profondo un avvenimento o le persone in esso coinvolte.
I fatti
Ieri notte le forze di polizia, in tenuta antisommossa, ha dato inizio allo sgombero forzato di circa 340 persone, delle quali 80 minori, da uno stabile fatiscente ma occupato da anni in via Cardinal Capranica a Roma.
Come spesso accade in questi casi chi viene scacciato dal pur misero tetto in cui sopravvive da anni ed in cui ha, comunque, creato una comunità, cerca di resistere, spesso in modo passivo, a volte in modo attivo. Nel caso specifico alcuni abitanti dello stabile avevano ammucchiato masserizie per impedire l’accesso e dato alle fiamme alcuni materassi.
Nessuna violenza ai danni delle (cosiddette) forze dell’ordine, che erano ben preparati con blindati, idranti, scudi, manganelli, lacrimogeni. Alla fine queste persone, in parte italiane in parte immigrati, sono state evacuate ma solo in parte, circa 200, hanno trovato un alloggio di fortuna.
Nei servizi televisivi si sono visti questi poveretti uscire, portando con sé racchiuse in una o due valige o pacchi le loro poche cose, forse i ricordi di una vita difficile. Uscire per andare verso un futuro ancor più privo di incognite.
La foto
Una foto in particolare mi sembra degna di una lettura non superficiale; essa rappresenta un bambino di 10/12 anni dai capelli corvini e la pelle un po’ scura, forse proveniente dal Maghreb. Ha lo sguardo triste e porta con sé una busta bianca, forse dei suoi lavori scolastici, forse dei documenti e cinque libri quasi d’antiquariato.
Non so se siano libri che abbia letto o su cui abbia studiato o se li abbia trovati e siano un suo tesoretto che spera di rivendere. Ma ciò poco importa.
Davanti a lui quattro figure si ergono, una donna e tre uomini. Nessuno è in divisa, ma indossano il casco della polizia di Stato.
I tre uomini, in abbigliamento quasi balneare, hanno lo sguardo perso in avanti quasi a voler traguardare oltre, neppure degnano il bambino di una minima attenzione.
La donna, forse una funzionaria, indossa un k-way blu, il distintivo della polizia ben in vista -come dire: io sono la legge- una radio al collo e guanti neri, nel caso dovesse toccare qualche poveraccio.
Ma è il suo viso ad essere inquietante; lo sguardo torvo e di fianco, gli occhi aperti a fessura, è proprio rivolto al bambino; le labbra serrate, le pieghe agli angoli sembrano produrre due profonde rughe. Da quel viso sembra trasparire fastidio, irritazione, totale disinteresse per un essere umano in un momento di difficoltà.
Eppure sarebbe bastato poco, anche solo un sorriso o, perché no, un aiuto a portare quei pesanti libri a rendere meno difficile a quel bambino lasciare quella che è stata la sua casa per diverso tempo, magari anche il quartiere dove andava a scuola, i suoi amici.
Sarebbe bastato non espugnare manu militari l’edificio ma prima trovare il modo di ricollocare chi vi abitava, una soluzione da paese civile.
Invece stiamo assistendo ad un imbarbarimento della società, che produce disinteresse o odio per gli ultimi della società, che si racchiude in sé stessa, che chiude i porti a chi fugge da paesi in guerra, che considera diversi coloro che hanno un altro colore della pelle, una diversa religione, una diversa inclinazione sessuale.
Ma la salvezza è forse in quella foto: i libri che possono vincere l’odio, l’indifferenza, il razzismo.